Facce Toste

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      Prefazione

      “Cabarettista”, “cantante”, “comico”... tutte le etichette che sino a oggi hanno tentato di definire Benito Urgu sono parziali, inadeguate e, spesso, fuorvianti.

      Benito, in realtà, è un veggente; questa, forse, è la parola che definisce meglio la sua essenza. Uno che non si limita a guardare: vede. E sa raccontare.

      “Guardare”, dal germanico wardon vuol dire “stare in guardia”; l'etimologia rivela, in chi semplicemente “guarda”, un atteggiamento di chiusura, di diffidenza: chi si limita a “stare in guardia” ha una percezione limitata, convenzionale di sé; tutto il resto è “gli altri”.

      Meglio mantenere le distanze; possono essere contagiosi.

      Per “vedere” gli altri, invece, non basta guardarli (spesso chi guarda non vede niente), serve un incantesimo: bisogna saperli indossare, saper assumere il loro punto di vista.

      Solo guardando se stessi con gli occhi di un altro, infatti, si può scoprire che, miracolosamente, le differenze tra l’Io osservante e l’Io osservato sono irrilevanti, anzi: non c’è alcuna differenza. C’è solo un Io più vasto.

      L’Io di Benito è addirittura sterminato.

      Vivendo in un perpetuo incantesimo, infatti, Benito s’identifica con l’universo, quello fisico e quello metafisico, e lo urgumorfizza; lo reinventa con un sorriso affettuoso che trasforma una possibile prevaricazione cosmica in un piacere condiviso.

      Ma Benito non si accontenta di assumere il punto di vista dei “colleghi” umani (le Desoline, gli Antoni Cau, i Giorgetti da Pirri, i Pinucci Mallus, i Roger Murru e gli altri diecimila), va oltre: diventa gallina, fantasma, asteroide, angelo, campanello, microbo, filo d’erba, elefante, pelo, nuvola, arcobaleno, asparago, gatto, lavandino, goccia d’acqua, millepiedi... diventa tutto quello che i suoi sensi e la sua fantasia riescono a intercettare, e si racconta. Con tutti i mezzi.

      In questo libro, per esempio, ci sono le foto di alcuni sassolini che ha “visto” nel corso degli anni. Li ha fotografati nella giusta prospettiva, con la giusta illuminazione; in modo che chiunque possa vederli ed essere visto da loro. Ha inserito anche alcune immagini di una pietra magica che può assumere mille volti, basta cambiare di pochissimo l’esposizione alla luce. Poi ha accompagnato tutte queste foto con pensierini misti: certi sono i suoi, altri dei sassolini.

      Disturba se li chiamo poesie?

       

      Filippo Martinez

       

       

      Postfazione

      Non scrivo mai a tavolino. Per questa postfazione, ho fatto una passeggiata a Oristano, e arrivato ai vecchi giardinetti di San Martino ho scelto una panchina in ombra e ho pensato al libro di Benito.

      Con il libretto d'appunti aperto, guardavo il panorama più vicino: la pavimentazione di basalto in piccole lastre irregolari, le foglie secche cadute dall'albero che mi dava ombra, la siepe di bosso al perimetro di un'aiuola di graminacee spontanee. Questo è il “guardare” a cui si riferiva Filippo nella prefazione.

      Poi, ho cominciato a “osservare”: le forme poligonali delle lastre del selciato, per lo più con quattro o cinque lati, la rara presenza di contorni curvi, l'incerta geometria dei giunti molto aperti colmati con malta cementizia; e soprattutto la mancanza di leggi di composizione assolute, per cui, senza escludere somiglianze, ogni elemento, ogni dettaglio della pavimentazione era unico. Questa moltitudine di individualità si ripeteva nelle foglie ingiallite per terra, nei rami di bosso, nelle spighe ondeggianti dietro la siepe. Osservando, mi scoprivo immerso in un piccolo Mondo popolato da forme esclusive e irripetibili.

       

      Oggi, sempre più spesso, la realtà è percepita attraverso filtri mediatici che la riducono e la banalizzano, dandoci però l'illusione di vedere oltre. Benito conosce bene i meccanismi della comunicazione di massa, e non si fa ingannare da chi vuol far credere che si può capire tutto senza sforzo, semplicemente dotandosi della tecnologia informatica più alla moda. Benito s'impegna direttamente nell'osservare e nel guardare, infine sa vedere, un atto creativo che non riguarda solo gli occhi e la mente, ma anche lo spirito. Nella sua indagine della realtà, ha scelto i sassi come testimoni della variabilità dell'universo, e da ricercatore sperimentale seleziona le possibilità di studio in diversi modi: con un procedimento fotografico segreto, tira fuori dall'ossidiana colori e forme che evocano figure e storie invisibili a occhio nudo; o, più semplicemente, si è fatto scaricare davanti a casa un camion di ghiaia, per moltiplicare le occasioni di “incontro” con le immagini suggerite dai sassi.

      Usando un termine caro alla Microgeografia, direi che Benito sa cogliere le “morfodiversità”, cioè la proprietà posseduta da alcuni oggetti (ma anche da persone) di apparire sotto diverse forme. Anzi, com'è evidente, anche lui stesso incarna questa proprietà.

      Per uno psicologo della forma, i volti rivelati dai sassi potrebbero essere un esempio della legge ghestaltica secondo cui si vede ciò che già si conosce. Quanto mai ovvio: una pietra non potrebbe mai suggerire l'immagine di Padre Pio in chi non l'ha mai vista prima. La grandezza di Benito non sta solo nel riconoscere, ma soprattutto nell'aver sublimato questa facoltà in una ricerca artistica sofisticata, applicata ai soggetti più umili dell'universo: i sassi.

      Recentemente, ho sentito l'antropologo Bachisio Bandinu definire Benito Urgu un “cacciatore di volti”,

      espressione molto bella e suggestiva, pienamente condivisibile. Si può anche dire che, con la sua ricerca, Benito fa un'operazione profondamente umanistica: dà alla Storia ciò che era solo nella Natura.

       

      Carlo M.G. Pettinau